Ecco Raw sembra in qualche modo prendere spunto da questa necessità di ridefinire femminilmente la mostruosità e quindi ripensare (o addirittura mettere fine) a un tipo mondo. Il patriarcato e la paura delle donne (Edizioni Tlon). “La mostruosità femminile fa paura perché può davvero mettere fine al mondo, o almeno a quello in cui viviamo” scrive Jude Ellison Sady Doyle nel suo Il mostruoso femminile. E’ soprattutto il corpo, femminile ovviamente, la sua scoperta, la sua reinvenzione anatomica e politica, a essere al centro. E così a poco a poco scopre di aver un feeling particolare con la carne, con il suo sapore…Ĭoming of age mestruale tanto estremo quanto consapevole nelle sue metafore e provocazioni. Justine viene schernita per il suo rapporto con il sesso, viene ricoperta di sangue, costretta a mangiare parti di animali. Da matricola è sottoposta una serie di “scherzi” e atti di nonnismo da parte degli studenti più grandi tra cui la stessa Alexia. Qui ritrova la sorella più grande Alexia. Siamo in un istituto veterinario dove la giovanissima e acerba Justine, che viene da una famiglia vegetariana e non mangia carne, è appena arrivata. Se la prima scena del film, nell’aprirsi con un indecifrabile incidente stradale inquadrato a distanza, sembra già adombrare suggestioni cronenberghiane, ipotesi di un cinema ossessionato dalla fusione corpo-macchina come in Titane, fresco e controverso vincitore della palma d’oro al Festival di Cannes, presto Raw esibisce tutti i crismi dell’educazione…”sentimentale”. Intrisa di feminist film theory e di “mostruoso femminile” Ducournau esordisce con un film che sovverte alcune regole dell’horror riallacciandosi alla tradizione francese dell’adolescenza come spazio emotivo da attraversare e raccontare attraverso le immagini. Che succederebbe se Antoine Doinel fosse una ragazza e invece di amare le donne (o gli uomini) scoprisse di amare la carne, di desiderare le persone…nel senso di volerle mangiare? Beh in quel caso avremmo davanti un racconto di formazione horror che Truffaut certo non avrebbe mai potuto immaginare negli anni ’60, ma che Julia Ducournau, parigina classe 1983, ha realizzato e presentato alla cannense Semaine de la critique nel 2016, dove ha vinto il premio Fipresci.
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